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Il più delle volte, l’atteggiamento demonizzante nei confronti dell’assunzione di sostanze stupefacenti attinge le proprie argomentazioni da quel triste e variegato “panorama umano” che fa di questa pratica uno strumento per sfuggire all’angoscia esistenziale senza rendersi conto di sprofondare nell’ancor più angosciante trappola della tossicodipendenza e dell’abuso. Ciò che spaventa di più gli uomini comuni, sono le conseguenze fisiche e psicologiche di un simile gesto: tutti quanti conosciamo i danni più gravi che causano determinate sostanze e tutti quanti inorridiamo leggendo libri e guardando film come “I ragazzi dello zoo di Berlino”.
Ciò che però non tutti conosciamo è la differenza che esiste (anche negli effetti) tra i vari tipi di droga; e non tutti conosciamo neppure le innumerevoli testimonianze di illustri artisti, filosofi e scrittori i quali ne hanno fatto uso e hanno saputo porsi di fronte all’argomento con atteggiamento critico ed imparziale.
L’artista, in quanto tale, è (o dovrebbe essere) libero dal giogo della cosiddetta “morale comune” e subisce il fascino della droga. Questo fascino non deriva dalla pura e semplice trasgressione, bensì prende corpo nel momento in cui l’effetto della droga lo trasporta in una nuova dimensione e gli conferisce un modo per riuscire a prescindere dalla piatta, consueta, pianificata e tradizionale visione del mondo.
Non si tratta di evasione o incapacità di affrontare la vita; non si tratta di affogare le proprie delusioni o di crearsi un mondo alternativo in cui spassarsela serenamente infischiandosene della vita: si tratta di sviluppare un nuovo punto di vista, di assumere una prospettiva “quintessenziata” e totalmente nuova. Si tratta di "Lanciare"
Aldous Huxley, dopo aver assunto Mescalina, si sofferma ad osservare il drappeggio della veste della Giuditta di Alessandro Botticelli e, come folgorato, inizia a ripete in maniera ossessiva la frase "Ecco come bisognerebbe vedere!"; lo scrittore, una volta tornato in sé, spiega come l’assunzione di mescalina conferisca per un periodo limitato quella capacità contemplativa che è propria dei grandi artisti e di tutti coloro che dedicano corpo e mente alla vita contemplativa.
Leggendo queste pagine sono riaffiorate subito alla mia memoria le grandi opere di Picasso che nella loro ricerca di sintesi cubista manifestano una particolarissima visione della realtà da parte dell’autore; oppure le liriche di Baudelaire che hanno volto il loro oscuro ed enigmatico sguardo verso le segrete corrispondenze tra le zone più occulte della natura e le manifestazioni attraverso cui l’uomo le percepisce; oppure ancora i grandi testi della letteratura del ‘900, da Pascoli a Ungaretti, che, riprendendo in diversi modi il concetto di simbolismo, hanno fornito una nuova visione del mondo del tutto alternativa a quella tradizionalmente conosciuta.
Sono cosciente dell’assoluta scarsezza di valore scientifico di tali affermazioni e consapevole di non aver trattato neppur minimamente il lato scientifico della faccenda (cioè gli effetti delle sostanze sul corpo umano), ma voglio comunque lanciare quest’ultima domanda: non sarebbe più giusto, alla luce di queste riflessioni, che la coscienza comune degli esseri umani si ponesse in maniera maggiormente critica rispetto ad un simile argomento? Ai posteri l’ardua sentenza...
Luca De Vito
2 commenti:
Problema ben posto, interessante. Basti pensare alla beat generation in america, al Kerouac che si faceva di tutto e di piu', al Cassady migliore, con tutto quell'andare a far esperienze per il mondo.
E che non si dica di poter esecrare, eliminandolo, quel periodo: sono stati anni di grandi valori. Anche se drogati. Anche se contro i principi che si vorrebbero, giustamente, inculcare ai bambini.
Concordo. Quello che penso è che queste esperienze sono per persone con una cultura alle spalle, e non per l'uomo qualunque. Hai capito il senso del mio articolo, ne sono contento...
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